Gaia Segattini: il futuro della moda tra sostenibilità, creatività e buona imprenditorialità
Imprenditrice, consulente e influencer. Gaia Segattini è un unicum nel panorama italiano. Pioniera del nuovo artigianato, dopo tanti anni trascorsi a dare consigli agli altri, ha deciso di passare dalla teoria alla pratica lanciando un brand che porta il suo nome.
Gaia Segattini, ci può raccontare il suo percorso?
Dopo essermi laureata come progettista di moda a Urbino ho cominciato a lavorare come consulente esterna occupandomi della progettazione, della ricerca tendenze arrivando al merchandising. Ho collaborato con brand di streetwear e sportswear quindi le sensazioni provenienti dalla strada erano molto importanti da captare. Inoltre negli anni ho avuto modo di viaggiare molto seguendo le produzioni all’estero e questa esperienza ha alimentato il mio pensiero trasversale anche sulla moda. Ho sempre pensato infatti che fosse il frutto di qualcosa che viene dal basso più che qualcosa cui aspirare. A quel tempo poi ho cominciato anche a fare divulgazione sul tema del nuovo artigianato digitale cominciando a scrivere di Made in Italy e sostenibilità in campo tessile in un momento in cui ancora non se ne parlava.
Come è nato questo interesse?
Sono sempre stata affascinata dall’artigianato forse perché mia madre mi ha sempre insegnato a prestare attenzione ai tessuti, ai colori, alla qualità dei capi e all’importanza del fatto a mano. Poi per il mio lavoro ho conosciuto tante persone, principalmente donne, che lavoravano in sartorie e laboratori con grande competenza. Attorno al 2008, avevo un blog su testate importanti e così ho intercettato il fenomeno del nuovo artigianato digitale. Era una tendenza molto sfaccettata, radicata negli Stati Uniti ma che stava prendendo piede anche in Italia. Questa scoperta mi ha restituito quell’entusiasmo che avevo perso nel momento che le aziende avevano cominciato a delocalizzare la produzione fuori dal nostro paese. Con il blog Vendetta Uncinetta ho raggiunto una certa popolarità e da qualche anno ho una pagina Instagram a mio nome in cui parlo dei temi che mi stanno a cuore.
Cosa intendiamo per nuovo artigianato digitale?
Gli artigiani di nuova generazione spesso hanno imparato le tecniche su internet e si occupano della loro autoproduzione dalla progettazione alla realizzazione passando per la comunicazione, il servizio clienti, la logistica e la vendita che avviene soprattutto via web. Possiamo parlare di un’impresa in miniatura e questa attività, sia se rimane un hobby sia se diventa un lavoro vero e proprio, offre tante opportunità come quella di imparare a fare networking e ad acquisire una mentalità trasversale che insegna a vedere i vari aspetti nel loro insieme e non a compartimenti stagni.
Come è nata l’idea di lanciare un brand tutto suo?
Dopo avere parlato per dieci anni di buona imprenditoria, mi ero stancata di non mettere in pratica niente di quello che dicevo. Sapevo anche che avevo bisogno di trovare la persona giusta, non avrei fatto tutto da sola. Ho proposto il mio progetto a una persona che stimavo dal punto professionale. Alla fine del 2018 ci abbiamo provato con il lancio di trenta maglie: sono finite in cinque minuti. Ora siamo diventati soci.
Qual è il modello di business di Gaia Segattini Knotwear?
L’idea è sempre stata da subito quella di utilizzare le giacenze di filati perché il primo atto sostenibile in assoluto è quello di utilizzare ciò che hai già. Il mio socio poteva contare su un magazzino di avanzi di produzione accumulati negli anni. Ci riforniamo da una realtà della nostra regione, le Marche, che si occupa di recupero tessile ma troviamo anche filati provenienti da aziende che purtroppo sono fallite. Non seguiamo la stagionalità in senso stretto ma facciamo dei lanci mensili in cui mettiamo in vendita prodotti già realizzati: questo implica un’enorme organizzazione a monte perché dobbiamo decidere le quantità e, nel momento che facciamo una previsione, dobbiamo reperire la materia prima. Siamo in grado di farlo perché conosciamo il nostro pubblico.
Possiamo definirla direttrice creativa del suo brand?
Non riesco a trovare un ruolo definito perché sono molto trasversale. Partiamo dal materiale e non dalla moda e realizziamo capi dalle linee molto semplici. La creatività viene spalmata su tutta la filiera, dal recupero della materia prima al rapporto con i clienti e con i fornitori passando per la cura delle persone che lavorano con noi fino ad arrivare all’etichettatura e al packaging. Poi c’è il lavoro sulla comunicazione e sulla promozione di un immaginario molto ben riconoscibile. In questo modo accorciamo le distanze con il nostro pubblico facendoli sentire unici e parte di una community.
La sua community ha 40mila follower. Quanto conta?
È sicuramente importante ma se fossi stata solo una influencer non avrei avuto questa clientela affezionata che ha acquistato anche con una pandemia in corso. Al centro di tutto c’è un’indubbia qualità del prodotto sia per quanto riguarda i materiali sia per la fattura che per la portabilità. Alla mia community ho insegnato a guardare le fibre, le cuciture, come è fatto un capo. Ma attenzione: rendere il cliente critico è una cosa che ti si può ribaltare contro. Per questo io non posso permettermi di fare meno del meglio.
Il consumatore ha un ruolo molto importante.
Decisamente dal momento che ha meno soldi e vuole spenderli meglio. Ora si può instaurare un dialogo tra chi produce e chi compra e in questo settore che, pur se di nicchia è di sicuro emergente, conosciamo i nomi e i cognomi delle persone che hanno realizzato gli abiti o gli accessori che indossiamo, sappiamo come sono fatti e dove vengono realizzati. Il digitale è uno strumento importantissimo per chi lo sa usare: diventa una continua ricerca di mercato che consente di realizzare prodotti più efficaci e mirati.
E sostenibili.
Senza dubbio ma non si deve puntare solo sulla sostenibilità come asset principale del proprio brand. Tra poco non sarà più la novità perché certe norme diventeranno la consuetudine. Bisogna realizzare un prodotto che abbia una sua personalità: mi fermo davanti una vetrina o mentre sfoglio Instagram se quel vestito o accessorio mi conquista, se è sostenibile o meno lo scopro dopo.
Il suo modello è replicabile?
In potenza sì perché l’Italia è piena di manifatture e di imprenditori bravi. Per me è stato più facile perché avevo un pubblico fin dall’inizio grazie alla rete ma il modello in cui si offre un prodotto di qualità, si ascolta il pubblico di riferimento, si comunica sul digitale e si vende direttamente al cliente finale può funzionare per tante altre realtà.
Potrebbe essere un consiglio per la ripartenza?
Secondo me sì, anche per aziende che fanno b2b. Metterci la faccia funziona ma serve anche migliorare la comunicazione digitale, avere un sito ben indicizzato, conoscere l’inglese per cercare clienti anche all’estero e magari dare fiducia a realtà meno note. Il grande marchio fa sicuramente più gola ma magari non paga nei termini e nelle modalità concordate. Piccoli brand che hanno già una community on line avviata offrono più continuità e magari possibilità di crescita. Sono piena di artigiani che mi chiedono i nomi di aziende che si occupano di confezioni. Bisogna capire che è necessario fare imprenditoria in un’altra maniera senza rimanere ancorati a vecchie logiche. I clienti di una volta e i grandi acquisti non esistono più.